Mi propongo di concentrare questo contributo su due «questioni di 
frontiera» che, a mio parere, sono (o dovrebbero essere) al centro del 
dibattito teorico e politico sui beni comuni nei paesi occidentali. 
Penso alla tendenza impostasi negli ultimi quindici anni consistente nel
 parlare di 
governance anziché di «governo» dei beni comuni. 
Penso altresì all’adozione quasi generale da parte dei dirigenti 
occidentali del principio di monetizzazione dei beni comuni al posto del
 principio di gratuità.
L’uso del concetto di 
governance risale alla seconda metà degli
 anni ’70 allorché l’economia occidentale si trovava alle prese con la 
rincollatura dei cocci del sistema finanziario andato in frantumi nel 
periodo 1971-73.
Il sistema nato nel 1945 essendo ridotto a macerie (fine della 
convertibilità del dollaro in oro e dei tassi di cambio fissi, fine dei 
controlli sui movimenti di capitale, esplosione del mercato delle 
divise, liberalizzazione dei mercati, deregolamentazione e 
privatizzazione del settore...), gli operatori finanziari, in primis gli
 istituti di credito e le società di notazione (rating), si 
confrontavano col problema di determinare i nuovi criteri quantificabili
 sulla base dei quali valutare le opportunità d’investimento, e 
soprattutto le operazioni di vendita/acquisto di pacchetti azionari (le 
famose OPA, fusioni di imprese, prese di partecipazione...). In effetti,
 la crisi finanziaria provocò dei grossi processi di ristrutturazione 
delle banche e delle assicurazioni a livello locale, nazionale ed 
internazionale.
La soluzione, per i gruppi dominanti, fu trovata nel principio «to 
increase the shareholder’s value». Un’operazione finanziaria era 
giudicata buona in funzione del suo contributo alla ottimizzazione della
 crescita di ricchezza per gli azionisti. Si cominciò quindi a sostenere
 che i processi di ristrutturazione e di sviluppo del nuovo sistema 
finanziario procedevano in un buon contesto di governance ai vari 
livelli settoriali e territoriali, nella misura in cui il risultato 
globale era l’ottimizzazione del valore del capitale azionario. Non per 
nulla, successivamente, negli anni ’90, si cominciò a misurare 
l’importanza delle imprese e a stabilirne la graduatoria mondiale in 
funzione della loro capitalizzazione e non più del numero di occupati 
e/o del fatturato.
Dalla valutazione delle operazioni finanziarie, il criterio in esame fu 
rapidamente applicato alla valutazione della gestione generale di 
qualsiasi impresa (e non solo di quelle quotate in Borsa) e poi esteso 
alla gestione di un settore industriale od economico, servizi pubblici 
compresi. Così, verso la fine degli anni ’80, il principio «to increase 
the shareholder’s value» fu utilizzato, in concomitanza con il principio
 di competitività, per valutare ogni scelta economica, ivi comprese le 
scelte economiche e sociali di un governo, per finire nel corso degli 
anni ’90 col valutare l’intera società (onde la valenza generale del 
concetto di governance acquisita negli ultimi anni).
A partire dal momento in cui i dirigenti hanno deciso che il valore di 
una cosa, di un’impresa, di una strategia di sviluppo, dipende dal suo 
contributo alla creazione di valore per il capitale e per i suoi 
detentori, è logico che essi siano passati da un uso del principio 
limitato alla gestione di operazioni finanziarie a quello applicato alla
 gestione di un’impresa, poi alla gestione dell’economia in generale.
Il che spiega anche la relativa facilità con la quale gli stessi 
responsabili politici, considerati tradizionalmente rappresentare le 
correnti di sinistra e progressiste, hanno aderito alla liberalizzazione
 delle istituzioni e dei servizi finanziari (inclusa la gestione dei 
fondi pensione e fondi malattia) e poi dell’insieme dei servizi pubblici
 detti locali, di prossimità, così come alla loro deregolamentazione e 
privatizzazione.
Questi passaggi sono stati resi possibili proprio per l’egemonia ideologica e culturale assunta dal concetto di 
governance
 nella teoria (e nella pratica) dello Stato e della società, come 
testimonia, già negli anni ’94-95, la comunicazione della Commissione 
europea, allora presieduta dal socialdemocratico/socialista francese 
Jacques Delors, sul tema della 
governance, nella quale la Commissione si schierava a favore dell’adozione del principio di 
governance.
Fra le ragioni invocate, v’erano due postulati intrinsecamente 
mistificatori. Da un lato, quello della complessificazione crescente 
delle società che, nell’avviso della Commissione, implicava l’abbandono 
dello Stato e della statualità quale luogo naturale e principale dei 
processi politici ed il loro allargamento a tutti i possibili «centri» 
di decisione politica definiti gli 
stakeholders, cioè i 
portatori d’interesse. Dall’altro lato, il postulato della 
mondializzazione che, secondo i suoi sostenitori, implicava per la 
democrazia lo spostamento della decisione politica dagli stati nazionali
 alla governance vuoi internazionale vuoi mondiale1.
Fondandosi sui due postulati, la 
governance è stata definita 
come il nuovo sistema di organizzazione delle decisioni politiche a 
livello nazionale, internazionale e mondiale basata 
sull’incontro/dialogo/discussione tra tutti i portatori d’interesse 
rappresentativi delle varie componenti della società quali gli Stati, le
 imprese, i sindacati, i cittadini, le collettività locali, le 
«chiese»... Secondo questa visione, la decisione politica è e deve 
essere il risultato di accordi e di partenariato tra i vari 
stakeholders in un contesto di libertà, di cooperazione/competizione, di autoregolazione e di responsabilità «sociale» autoassunta.
Il motore del nuovo sistema di organizzazione politica sta nell’ottimizzazione dell’utilità particolare di ogni 
stakeholder
 in termini monetari/finanziari in funzione dell’equazione 
costi/benefici ai prezzi di mercato. Un’equazione non fissata in maniera
 generale e per tutti, ma flessibile, variabile a seconda dei luoghi, 
degli 
stakeholders in azione, dei tempi, dei settori. La 
governance
 non è orientata da un interesse generale, da una utilità collettiva, in
 funzione dei principi di giustizia, uguaglianza e solidarietà e della 
concretizzazione dei diritti umani e sociali. Il valore di un bene 
risulta dalle equazioni provvisorie e parziali che consentono di 
ottimizzare le utilità degli 
stakeholders.
In questo contesto, non v’è più spazio né funzione per i beni comuni 
pubblici. In breve, il governo dell’impresa è stato assunto a modello da
 seguire per il governo dello Stato e della comunità mondiale.
Il risultato finale di questi spostamenti «tettonici» di natura teorica,
 ideologica, politica e sociale è stato molto dirompente: – 
destatalizzazione del potere politico e della politica (lo Stato è 
ridotto ad uno fra i vari portatori d’interesse, il che fa saltare 
qualsiasi legittimità generale alla rappresentanza politica espressa dai
 parlamenti. Questi ultimi non hanno più granché da dire; – 
privatizzazione del potere politico e sua contrattualizzazione 
«commerciale» tra soggetti portatori d’interessi particolari; – la 
responsabilità scade a livello dell’autoregolazione e dell’autocontrollo
 per cui, per esempio, il politico inter-nazionale non è altro che un 
processo di negoziato permanente tra soggetti autoregolanti e 
autocertificanti: vedi il caso macroscopico e ridicolo della famosa 
«responsabilità sociale delle imprese» e della loro «responsabilità 
ambientale» o, per quanto riguarda gli Stati, della limitazione 
spontanea delle emissioni di CO2 o della riduzione, altrettanto 
spontanea, degli armamenti.
La governance dell’educazione, la governance dei beni naturali, la 
governance del sistema della salute... sono una pirateria strutturale, 
un esproprio legalizzato dei beni comuni, della giustizia e della 
democrazia. È necessario ed urgente che coloro che difendono i beni 
comuni si battano per l’abbandono dell’uso del concetto di governance. 
Non farlo, in maniera chiara e determinata, significa diventare complici
 dei processi recenti di mercificazione dei beni comuni e della loro 
privatizzazione.
Gratuità vs. monetizzazione
Quanto sopra è stato possibile perché si è imposto di pari passo, in una
 relazione di reciproco posizionamento di causa-effetto, nell’ambito del
 crescente predominio della visione capitalista liberale della società e
 del mondo, il principio cosiddetto della «verità del prezzo» (di 
mercato).
Fino a non molto tempo fa, il valore dei beni «naturali» indisponibili 
al mercato (le foreste primarie, la pioggia, le spiagge del mare...) 
facenti parte intrinsecamente dei beni demaniali dello Stato (o dei 
Comuni, delle Province), così come i servizi non-mercantili (quali 
l’educazione, la protezione civile, la salute, la difesa militare, le 
fognature, i musei...) era un valore di utilità sociale ed umana 
collettiva, per tutti.
I costi sostenuti dalla collettività per la loro preservazione, 
produzione, manutenzione ed uso erano presi in carico dalla stessa 
collettività attraverso la spesa pubblica, finanziata dalla fiscalità 
generale e specifica. In alcuni casi, la collettività chiedeva ai 
singoli cittadini o a gruppi di cittadini il versamento di un contributo
 alla copertura dei costi chiamato tariffa, canone, «biglietto» (tariffa
 dei francobolli, biglietto dell’autobus o dei treni, canone per il 
raccordo alla rete elettrica, al gas urbano, alla radio...). Il 
contributo non aveva la finalità di coprire i costi. Questi restavano 
principalmente assicurati dalle finanze pubbliche.
Il principio di gratuità dei beni comuni non significa assenza di costi 
(«nessuno paga»!). Significa invece che i costi, molte volte 
particolarmente elevati (caso della difesa militare) sono presi in 
carico dalla collettività. La grande conquista sociale rappresentata 
dall’introduzione nei paesi europei della fiscalità generale 
redistributiva e progressiva sta proprio nel principio della gratuità 
dell’accesso e dell’uso dei beni essenziali ed insostituibili per la 
vita grazie alla copertura comune dei loro costi secondo di principi di 
giustizia, solidarietà e responsabilità.
Il principio di gratuità, in effetti, è strettamente legato a quelli di 
responsabilità e di partecipazione (fino ad alcuni anni fa sotto forma 
indiretta, quella della rappresentazione democratica, via le elezioni 
dei «deputati» a suffragio universale diretto). È questo principio che 
ha fatto della Danimarca (ed anche della Norvegia e della Svezia) la 
«buona società» occidentale del XX secolo, modello per tutte le altre. 
Il sistema fiscale in Danimarca, piuttosto unico ed originale, fu 
addirittura dissociato dal sistema del lavoro retribuito.
Il diritto alla vita decente e sociale era garantito a tutti, occupato o
 no. Da alcuni anni, la Danimarca non è più la società che è stata. Quel
 che ha reso e rende tuttora il principio di gratuità inaccettabile ai 
detentori di capitale (ai gruppi dominanti sul piano economico e 
sociale) è, per l’appunto, il fatto che essi debbano condividere una 
parte della loro ricchezza «prodotta» per «pagare – gridano – l’accesso 
all’acqua, alla salute, all’educazione... degli altri, di quelli che non
 vogliono lavorare, degli immigrati, degli illegali... ecc. ecc.».
Il rigetto della copertura dei costi attraverso la fiscalità e le 
tariffe pubbliche nel caso dei servizi idrici, dell’accesso alla salute,
 dei trasporti collettivi... mentre, invece, si accetta il ricorso alla 
fiscalità per la copertura della difesa militare, si spiega assai 
facilmente. Mentre la difesa militare si traduce in produzione di beni e
 servizi che generano fonti importanti di reddito per i detentori di 
capitali (l’industria militare rende ricchi i privati nazionali ed 
internazionali), ciò non accade per la produzione di beni e servizi, per
 esempio, nel campo dell’educazione. Un insegnante elementare, o del 
secondario, è vissuto – per il capitale privato che paga le tasse – come
 un costo in assoluto. L’«industria scolastica» non rende ricchi i 
privati.
Per questo l’economia capitalista parla dell’insegnamento elementare e 
secondario come di attività lavorative non produttive (il discorso è 
cambiato recentemente per quanto riguarda le università private 
specializzate e, più in generale, l’economia della conoscenza ad alto 
valore aggiunto). Lo stesso vale per la categoria dei burocrati pubblici
 (a differenza dei burocrati privati che «rendono» finanziariamente). I 
discorsi e dibattiti sul «costo dei politici» o i «costi della politica»
 (cui hanno aderito attivamente anche i rappresentanti della sinistra e 
delle forze dette progressiste) è sintomatico, corrisponde in pieno 
all’ideologia della governance. Discreditare la funzione del politico ed
 il ruolo della politica pubblica ha funzionato in maniera efficace in 
questi ultimi trent’anni.
La monetizzazione dei servizi un tempo pubblici in funzione 
dell’obiettivo della «verità dei prezzi» si fonda sull’applicazione 
mistificatrice della teoria dei costi. Il caso della monetizzazione 
dell’acqua e dei servizi idrici costituisce un esempio illuminante di 
una serie di mistificazioni legate alla teoria dei costi. L’acqua dei 
fiumi, delle falde, della pioggia, dicono i dominanti, è un bene comune e
 resta un bene comune, ma per garantire l’accesso all’acqua potabile c’è
 bisogno di tubi, di serbatoi, di stazioni di potabilizzazione, di 
laboratori di controllo della qualità, cioè ci sono dei costi.
A chi spetta coprire i costi? I dominanti affermmano: al consumatore, a 
colui che ricava un’utilità particolare e personale dal consumo 
dell’acqua potabile in funzione dei suoi bisogni. Il consumatore, 
quindi, deve pagare un «prezzo dell’acqua» tale da consentire di 
recuperare tutti i costi di produzione, compresi i costi d’investimento a
 lungo termine, più un livello di profitto sufficiente per la 
remunerazione del «rischio» assunto dal capitale investito.
Si tratta dell’applicazione del «full cost recovery principle», un 
principio chiave dell’economia capitalista di mercato, fatto suo anche 
dall’Unione Europea con la Direttiva quadro sull’acqua del 2000. È uno 
dei principi teorici alla base della governance. Visto che il servizio 
idrico integrato è «naturalmente» e dappertutto gestito in situazione di
 monopolio e che, inoltre, ci sarà sempre la necessità vitale di 
utilizzo dell’acqua potabile, parlare di «rischio capitalista» in questo
 campo è pura mistificazione.
Inoltre, i dominanti difendono la monetizzazione dei servizi idrici 
sostenendo che il prezzo di mercato è necessario per garantire 
l’autonomia finanziaria degli operatori del settore e sganciarli così 
dal finanziamento pubblico riducendo la spesa pubblica e quindi la 
pressione fiscale sul capitale privato, il che rappresenterebbe, secondo
 loro, un buon indicatore di una governance riuscita. Anche qui, la 
mistificazione è particolarmente grave. Non solo si estrae l’accesso ad 
un bene/servizio essenziale per la vita (in questo caso, l’acqua) dal 
campo dei diritti, ma si afferma che i diritti umani e sociali hanno un 
prezzo di mercato e che essi si vendono e si comprano! La mercificazione
 della vita non poteva essere più esplicita.
Inoltre, ci si fa burla del cittadino. Non solo lo sganciamento del 
servizio idrico dal finanziamento pubblico alleggerisce la 
responsabilità del contribuente ricco, ma addirittura lo scarico sul 
consumatore del finanziamento stesso si traduce nell’affidare al 
cittadino ridotto a consumatore il compito di finanziare la creazione di
 ricchezza per i detentori privati di capitale. Il che è assurdo, 
oltreché ridicolo: per avere accesso ad un bene/servizio che non 
sceglie, perché ne ha la necessità vitale, e che ad ogni modo la 
società/la comunità deve garantire, il «cittadino» di oggi deve 
contribuire all’aumento della ricchezza del capitale privato.
Infine, i dominanti sostengono che quel che il consumatore paga versando
 il prezzo dell’acqua non è l’acqua ma i servizi resi. Quindi, non vi 
sarebbe alcuna privatizzazione e mercificazione dell’acqua. Tutt’al più,
 dicono, v’è mercificazione e privatizzazione dei servizi idrici. Se ciò
 fosse vero, il che non è, perché HERA pagherebbe per l’acquisto 
dell’acqua da Romagna Acque che gliela vende al prezzo dell’acqua 
grezza? E di cosa si deve parlare se non di mercificazione e di 
privatizzazione dell’acqua allorché l’Acquedotto pugliese compra l’acqua
 da Lucania Acque e da Campania Acque pagando dei prezzi dell’acqua 
grezza differenti a seconda della regione di vendita?
Il caso della monetizzazione dell’aria e delle foreste rappresenta altre
 varietà di mistificazione. I gruppi dominanti hanno accettato nel 1992 
che si parlasse di un «protocollo di lotta contro il cambio climatico» a
 condizione che i costi connessi alla riduzione delle emissioni dei gas 
ad effetto serra (GES) fossero coperti attraverso i meccanismi di 
mercato, in funzione della quantità consumata da ciascun paese, da 
ciascun settore e da ciascuna impresa rispetto alla quantità massima 
autorizzata. Così è nato il Protocollo di Kyoto (1997) basato sul 
«mercato delle emissioni»: c’è chi compra la quantità di GES di cui ha 
«bisogno» e che supera quella autorizzata e chi vende la quantità di GES
 non emessa inferiore a quella autorizzata.
Il «mercato dell’aria» è nato. I suoi fautori continuano a difenderlo 
solo per interesse ideologico ed economico (tutto deve essere mercato) 
anche se oramai è evidente che il meccanismo del prezzo delle emissioni 
produce effetti perversi che non gli hanno permesso di contribuire alla 
soluzione del problema. Come il prezzo mondiale del petrolio non ha 
risolto alcun problema energetico ed economico – il contrario è vero –, 
così il prezzo mondiale della tonnellata di CO2 non permetterà di 
risolvere il problema della lotta al riscaldamento dell’atmosfera 
terrestre. Pretenderlo è mistificazione da menzogna.
Lo stesso vale per la decisione presa nel 2002 a Johannesburg di 
monetizzare le foreste primarie. Queste non saranno salvate dalla 
traduzione in dollari o in euro o in yuan del loro valore, misurato in 
questo caso in termini del loro contributo alla riduzione dei costi 
connessi alla lotta contro le emissioni di GES. A parte il fatto che le 
foreste primarie hanno un valore perché esistono e fanno parte del ciclo
 integrale della vita sul pianeta, non sarà per il fatto che le azioni 
dei loro proprietari figureranno istantaneamente sui principali indici 
borsistici mondiali che esse saranno valorizzate, protette e conservate 
nell’interesse della vita del pianeta.
Ha forse il prezzo borsistico del grano, del frumento, del riso 
contribuito ad un migliore governo di questi beni essenziali 
all’alimentazione della popolazione mondiale? Certamente no. Così dicasi
 dei medicinali non generici prodotti a partire dall’appropriazione 
privata da parte delle grandi compagnie chimiche e farmaceutiche 
multinazionali del capitale biotico esistente nelle foreste primarie. 
Nel caso del trattamento contro l’AIDS, la monetizzazione del capitale 
biotico ha soprattutto agevolato un prezzo elevatissimo della triterapia
 impedendo così a milioni di esseri umani affetti dall’AIDS di essere 
curati.
La «verità del prezzo» di mercato applicata ai beni comuni pubblici è 
semplicemente un furto. È tempo, quindi, di abbandonare la 
monetizzazione dei beni comuni pubblici e di reinventare sistemi basati 
sul principio di gratuità partendo da forme organizzate a livello locale
 (da qui l’importanza dell’economia di prossimità, dei circuiti corti) 
fino al livello mondiale (attraverso forme di transnazionalità e di 
transterritorialità che restano da immaginare, definire ed 
implementare). Di nuovo, il principio di partecipazione dei cittadini e 
quello di responsabilità collettiva condivisa assumono un ruolo centrale
 determinante.