lunedì 26 luglio 2010

Le reti di Gas e oltre: sigle e brevi note

I RES (rete di economia solidale) collegano in rete i GAS, le cooperative sociali, le varie realtà del non  profit attivando un flusso di prodotti e servizi che va oltre lo scambio diretto tra chi peroduce e chi consuma.

I DES (distretti di economia solidale) sono dei distretti geografici composti da una rete nella quale non circolano solo prodotti o servizi ma anche informazioni e pratiche comuni. In pratica un distretto dovrebbe essere una rete in cui sono presenti  le varie realtà dell’economia solidale (in genere vengono mappate: gas, botteghe del commercio equo, finanza etica, ecc..), questo per fare in modo che si rafforziono vicendevolmente (scambi interni alla rete) e promuovano verso l’esterno (persone e istituzioni) i principi e le pratiche dell’economia solidale.
Un DES individua progetti e stabilisce i contatti con i produttori e la rete per la loro realizzazione. Un esempio concreto del pasaggio alla logica dei DES “ e’ quello di una cooperativa di disbili che fa da collettore e distributore nel distretto per quanto riguarda le verdure ed il fresco. Il produttore che prima faceva il giro dai gruppi, fa una consegna sola alla cooperativa; i disabili gestiscono la distribuzione in paese, allargata anche oltre i confini del gas. Per loro è un momento importante di socializzazione, per i gas una pratica di economia solidale (economia che mette al centro la relazione ed il benessere delle persone).
 
Le piattaforme logistiche invece sono realtà territoriali  dell'economia solidale che gestiscono in modo solo centralizzato l’attività: possono relazionarsi sia con le esigenze dei produttori (aziende che vogliono convertirsi al bio che hanno bisogno di quantità di smercio dei prodotti) sia alle esigenze dei consumatori che per vari motivi non riescono a partecipare all’attività dei GAS.

lunedì 19 luglio 2010

Federalismo demaniale

Come il federalismo demaniale inciderà sulla fisionomia del nostro Paese? Cosa prevede realmente il decreto legislativo licenziato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 20 maggio che disciplina il trasferimento dei beni demaniali dallo Stato centrale alle amministrazioni locali?
Quali sono i rischi, quali i vantaggi? Quali e quanti sono i beni realmente interessati?
Per rispondere a queste domande il Touring Club Italiano ha chiamato a raccolta le principali associazioni che in Italia si occupano di difendere e valorizzare il patrimonio culturale e ambientale. Michele Vanellone del Cai, Costanza Pratesi del FAI, Giovanni Losavio di Italia Nostra, Andrea Poggio di Legambiente e Stefano Lenzi del WWF si sono riuniti oggi per confrontare idee e visioni sul federalismo demaniale. Padroni di casa il neopresidente Franco Iseppi e il direttore generale del Tci, Fabrizio Galeotti, che hanno rispettivamente introdotto e concluso i lavori coordinati da Massimiliano Vavassori, direttore del centro studi Tci.
Il risultato dell’incontro è l’avvio di un gruppo di lavoro che, da ora in poi, interagisce con le Istituzioni e “vigila” – con il supporto di Soci e cittadini – affinché il trasferimento dei beni dello Stato non si riduca a una mera svendita, ma si traduca in una messa a valore sociale e non solo economica del patrimonio nazionale. A beneficio della collettività e non di pochi.
Touring Club Italiano, Cai, FAI, Italia Nostra, Legambiente e WWF – ognuno con la propria storia e la propria identità - si trovano, per la prima volta, uniti in difesa del Paese e del suo patrimonio più prezioso.

domenica 18 luglio 2010

Beni Comuni

I beni comuni: doni preziosi della natura e di chi ha vissuto prima di noi. Che diritto abbiamo noi di consumare risorse naturali irriproducibili? L’homus oeconomicus si comporta come se fosse l’ultimo a dover vivere sulla Terra.
E’ quindi importante riconoscere e riconsiderare i beni comuni come doni della natura e della società che ereditiamo e che creiamo collettivamente: “uno scrigno di tesori”, “una ricchezza comune” (Barnes). Bisogna fare in modo che questi caratteri diventino una acquisizione culturale condivisa, un “comune sentire”.
Sono state fornite varie definizioni e classificazioni. Per esempio: “I beni comuni possono essere definiti come l’insieme dei principi, delle istituzioni, delle risorse, dei mezzi e delle pratiche che permettono ad un gruppo di individui di costituire una comunità umana capace di assicurare il diritto ad una vita degna a tutti” (Unimondo). Altri (Petrella) pensano ai beni comuni come una serie di beni e servizi materiali e immateriali che rispondono a bisogni individuali vitali e che posseggono due caratteristiche: essenzialità e insostituibilità. E’ possibile operare una tassonomia dei beni comuni su tre liste (Giovanna Ricoveri): 1-beni e servizi comuni naturali tangibili, esauribili; 2-beni e servizi comuni immateriali, cognitivi, illimitati; 3-beni e servizi pubblici, naturali e artificiali, come le infrastrutture fisiche o digitali, la conoscenza, il welfare, internet. Ma si possono usare altre griglie, per esempio, di scala: beni comuni globali (atmosfera, oceani, foreste, biodiversità…), beni comuni legati ad usi civici territorializzati, local commons (bacini idrografici, bioregioni, ecosistemi urbani…). E lo stesso procedimento lo si può applicare con i beni comuni culturali (saperi, lingue, codici, affetti, relazioni sociali in genere) (Elinor Ostrom). Altra decisiva classificazione distingue tra “beni esclusivi” e “beni non esclusivi”. I beni comuni esclusivi sono quelli il cui possesso o godimento da parte di un soggetto esclude il possesso o godimento da parte degli altri (la ricchezza, il potere, la visibilità mediatica…) ed i beni non esclusivi, sinergici, inclusivi sono quelli che ivece tutti possono godere senza nulla togliere agli altri e al pianeta: i beni del corpo (la piena salute, le abilità), i beni della mente (le virtù, la cultura, la creatività, la contemplazione, il godimento estetico), i beni della relazione umana (i “noi” positivi: l’amore, l’amicizia, la solidarietà) (Lombardi Vallauri).
Una formidabile evoluzione del significato di beni comuni è venuta ultimamente dalle comunità virtuali che praticano la sfera digitale. Per loro e con loro “the Commons” diventano chiaramente tutti quegli elementi materiali e immateriali, naturali e sociali che ognuno di noi può condividere e che nessuno può possedere in esclusiva se non a discapito della loro stessa funzionalità, utilità e potenza.
Comunque, sono evidenti le sovrapposizioni di significati e gli intrecci delle azioni per i beni comuni. Volendo procedere per estensione potremmo dire che la vita stessa è un bene comune, perché è indivisibile e inseparabile dall’infinità dei sistemi viventi (Buiatti).
Poiché ogni cosa – alla fine – è connessa da altre e tutto si sostiene a vicenda (vivente e non vivente, materiale e spirituale, passato e futuro) ogni cosa può essere giustamente definita bene comune. Con il rischio, però, di cadere in una sorta di visione astratta e idealizzata del mondo, in cui solo una società compitamente comunistica potrà risolvere la questione della condivisione e della gestione responsabile di ogni cosa. Tale rischio può essere evitato individuando e praticando temi concreti di azioni collettive collegate alle urgenze sociali e alle emergenze ambientali. In particolare, oggi, esse sono: la ripubblicizzazione dell’acqua, la lotta alle emissioni in atmosfera (gas climalteranti e polveri sottili inalabili), la fuoriuscita dall’era dei combustibili fossili (risparmio energetico e fonti rinnovabili), la difesa della terra (biodiversità, sovranità alimentare, lotta al consumo di suolo), il libero accesso ai saperi, la liberazione del tempo dal lavoro necessitato (il diritto ad una esistenza dignitosa). In altre parole si potrebbe dire che la lotta per i beni comuni altro non è che l’azione necessaria per far emergere i desideri autentici di ogni individuo, liberati dalle costrizioni e dalle manipolazioni del mercato e riorientati verso le categorie dei beni non esclusivi e relazionali.  

Verso una società dei beni comuni
L’uso e la cura, la gestione dei beni comuni, quindi, deve avvenire con finalità di interesse pubblico, riportando in luce l’idea del bene comune finale. I beni comuni devono servire all’interesse collettivo. Il nesso tra beni comuni e il bene comune, l’interesse generale, è molto stretto.
In tal modo verrebbe sottoposta a verifica l’idea (radicata nell’epoca neoliberista) secondo cui vi sarebbe un automatismo lineare tra interesse della singola impresa economica e benessere generale. Se partissimo non dall’accumulazione monetaria, ma dalla necessità di preservare i beni comuni il più a lungo possibile e nelle migliori condizioni, il dogma sviluppista crollerebbe subito. Posti di fronte al problema della miglior utilizzazione dei beni comuni, i principi prevalenti e ordinatori della nostra società subirebbero una rivoluzione copernicana: da un’economia della “distruzione creativa" (prelievi indiscriminati e consumi illimitati) ad una della sufficienza (conservazione, riuso, riciclo, restituzione…); da una economia del massimo rendimento ad una del massimo risparmio; da una finanza del debito ad una della responsabilità; da una società della competizione ad una della reciprocità; da rapporti sociali atomizzati e individualistici ad altri condivisi e capaci di rispondere in solido. Cambierebbero, insomma, i “tipi umani” presi a riferimento e assunti a modello della società.
Verso queste visioni di società si rivolgono alcuni nuovi, estesi movimenti sociali: per l’acqua, per la difesa del suolo e delle sementi, per la giustizia ecologica, per il libero accesso alla conoscenza, contro la regolamentazione di  Internet. Infiniti sono gli esempi concreti (vedi il sito www.onthecommons.com) di gruppi sociali che cominciano a rivendicare un uso condiviso e sostenibile dei beni comuni. Possiamo dire che è nato un “The Commons Movement” che così si esprime: “The commons è ciò che noi condividiamo. Dai parchi naturali all’acqua, dalle conoscenze scientifiche a Internet molte cose non sono proprietà di nessuno. Esse esistono per il beneficio di tutti, e devono essere protetto per le generazioni future. Un movimento sta emergendo oggi per creare una società basata sui beni comuni. On the Commons è una rete di cittadini che considerano i beni comuni il momento culminate nella loro vita e promuovono soluzioni innovative basate sui beni comuni per creare un futuro luminoso”.
Molti sono gli “anticorpi sociali che si attaccano alle patologie del potere” (Paul Hawken), che si battono per la difesa dell’ambiente e la giustizia sociale e che individuano nell’accesso ai beni comuni la chiave di una trasformazione sociale.
[tratto da: Officina delle idee Gruppo di riflessione sui beni comuni]

sabato 17 luglio 2010

Mappa mondo nuovo

Questa mappa è utile per conoscere persone che  oltre a noi sognano o progettano un mondoNuovo, o anche solo desiderano scambiare conserve di pummarola con uova di giornata. Su una mappa dell'Italia compaino dei numeri e delle bandierine di segnalazione cliccando sulle quali è possibile leggere i messaggi di queste persone.  I promotori avvisano che è un esperimento per sovvertire gli schemi e far sì che quello che ci resta difficile realizzare nella cosiddetta "vita reale" diventi molto più facile grazie all'aiuto della cosiddetta "vita virtuale".
Ecco alcune importantissime e schematiche indicazioni per capire a cosa serve la mappa:

1.facilitare la scoperta di persone con la nostra stessa sensibilità verso il mondo
2.facilitare la creazione di relazioni e quindi di eventuali reti di solidarietà
3.far prendere coscienza di quanti si è anche come singoli e non solo come associazioni. L'idea forse più rivoluzionaria dietro la mappa sta proprio nel fatto che aiuta a creare reti tra persone e poi, anche ma non solo, con e tra le associazioni. Ognuno porterà nella rete la sua ricchezza e diversità.

Volontariamente non sono state messe categorie del tipo "cerco/regalo/etc." perché ciò che è importante sono le relazioni reali e lo strumento non vuole sostituire l'incontro tra le persone. L'obiettivo è infatti quello di far uscire dal virtuale al reale tutti questi rapporti che si sono creati o si creeranno su internet. Infatti scrivono gli  ideatori del sito: "poichè non vogliamo che questo strumento sia identificato con il nostro attuale o futuri progetti, vi invitiamo a contattare personalmente utenti a voi vicini e creare le vostre relazioni e i vostri progetti. Per facilitare ciò è utile scrivere nel proprio messaggio di presentazione chi siamo e cosa vorremo fare-creare-scambiare-condividere."
Indirizzo di posta elettronica: mappamondonuovo@gmail.com
sito web: http://www.mappamondonuovo.org/index.php


martedì 13 luglio 2010

Il Capitale delle Relazioni

E' uscito per Altreconomia Edizioni "Il Capitale delle relazioni. Come creare e organizzare gruppi d'acquisto e altre reti di economia solidale, in 50 storie esemplari".
"Il Capitale delle relazioni" è una straordinaria raccolta di buone prassi, la testimonianza del lavoro meticoloso
del "movimento" che da tempo si batte per trasformare l'attuale sistema in una nuova economia e che in questi ultimi 15 anni ha fatto nascere e sviluppare in tutta Italia centinaia di gruppi d'acquisto solidali, progetti di filiera corta, di consumo a chilometro zero, gruppi per le energie rinnovabili, realtà di turismo responsabile,
fiere del consumo critico e centinaia di altre reti, come i Distretti di economia solidale.
Questo patrimonio costituisce il vero capitale su cui investire: quello delle relazioni. Altreconomia, mensile e casa editrice indipendente, da oltre 10 anni racconta le vicende delle "reti di economia solidale": questo libro ne è un prezioso compendio, con il valore aggiunto delle parole dei protagonisti, i 35 autori, coordinati dal Tavolo per la Rete italiana di economia solidale, gruppo che promuove in Italia lo sviluppo dei Des, Distretti di economia solidale, per favorire nascita e sviluppo di esperienze d'economia solidale.
Ma come moltiplicare questo capitale? In Italia sono ormai un migliaio i gruppi d'acquisto solidali: persone
che fanno la spesa insieme, scegliendo prodotti "etici" e creando relazioni di fiducia con chi li produce.
Ma i Gas sono solo la "rete" più nota: il libro spiega, attraverso 50 storie e schede come si fa a organizzare in prima persona una rete di economia solidale. Come avviare ad esempio un Gas nel proprio condominio o ufficio, come progettare una "filiera corta" insieme al contadino del campo accanto, "saltando" gli intermediari. Quali sono gli strumenti essenziali per passare dai grandi centri commerciali a una "Piccola Distribuzione Organizzata", e quali semplici passi muovere per organizzare nella propria città una fiera del consumo critico e sostenibile.
Come formarsi e informarsi e soprattutto come "mettere in rete" queste iniziative, con l'obiettivo di costituire sul proprio territorio un vero e proprio "Distretto di economia solidale". Uno sguardo completo sull' "economia delle relazioni" in Italia. "Il capitale delle relazioni. Come creare e organizzare un gruppo d'acquisto e altre reti di economia solidale, in 50 storie esemplari", a cura del "Tavolo per la Rete italiana di economia solidale", 200 pag. 14 euro
Da giugno 2010 in libreria, il testo può essere acquistato anche nelle botteghe del commercio equo e solidale e sul sito di Altreconomia: www.altreconomia.it/libri. Il libro è disponibile con il 40 per cento di sconto per i membri dei gruppi d'acquisto che lo acquistano collettivamente.
Informazioni:
Laura Anicio - Altreconomia
tel. 02 87365600 - cell. 340 8431832,
ufficiostampa@altreconomia.it
http://www.altreconomia.it/

lunedì 12 luglio 2010

I nuovi dati del settore biologico in Italia

Calano i produttori ma aumentano i trasformatori. La fotografia del settore biologico, secondo i nuovi dati diffusi dal Sinab, registra un crescita delle superfici coltivate in biologico del 10%. L'Italia mantiene il primato in Europa per numero di operatori certificati impegnati nella filiera dell'agricoltura biologica e resta leader europeo per ettari di superficie coltivati secondo il metodo biologico, escludendo i boschi e i pascoli dove primeggia la Spagna.

"I prodotti della nostra agricoltura biologica vengono apprezzati sempre di più dai cittadini italiani ed europei - ha dichiarato il ministro Galan commentando la presentazione degli ultimi dati del SINAB relativi al 2009 - ma bisogna fare ancora di più per sostenere le imprese agricole biologiche, che si impegnano in un settore che fa della qualità, per i prodotti e per l'ambiente, il suo asse portante".

Al 31/12/2009 sono 48.509 gli operatori biologici in Italia, con una riduzione complessiva, rispetto allo scorso anno di circa due punti percentuali. Sono soprattutto i produttori a risentire di un calo importante (-3.7%), mentre i trasformatori che operano in regime di agricoltura biologica continuano a crescere (+3.5%). Per le superfici invece vengono registrati dal SINAB 1.106.684 ettari coltivati in biologico, con una crescita rispetto allo scorso anno pari a circa il 10%.

"Di concerto con le Regioni - ha continuato il ministro delle politiche agricole alimentari e forestali- anche nell'attuazione dei Piani di sviluppo rurale, bisogna favorire la conversione di nuove aziende verso il biologico e individuare degli strumenti, per migliorare la strutturazione delle filiere, di cui il biologico ha fortemente bisogno.

"L'obiettivo che ci poniamo - ha concluso Galan - è quello di favorire quanto più possibile l'accesso delle nostre imprese agricole a questo mercato in forte espansione e rispondere quindi alle richieste dei consumatori".
Secondo i dati del SINAB alle regioni del sud spetta il primato per superfici agricole condotte secondo il metodo biologico (Sicilia, Puglia e Basilicata) e per numero di aziende agricole biologiche (Sicilia, Calabria e Puglia) mentre al nord sono concentrate la maggior parte delle imprese di trasformazione (con il primato dell'Emilia Romagna e della Lombardia).
I principali orientamenti produttivi del biologico italiano (escluse le superfici a foraggi, prati e pascoli) riguardano, in ordine di importanza: i cereali, l'olivo, la frutta (compresa quella in guscio), la vite, gli agrumi e gli ortaggi.
Fonte: greenplanet.net

sabato 10 luglio 2010

Verbale riunione GAS 06.07.2010

Si è cenato insieme, tutto buono. Poi ha preso il via la discussione. Erano presenti più di venti persone, bene.
Argomenti trattati da ordine del giorno:
1) Si fa una rassegna dell'andamento degli ordini, fra questi:
- a) viene posticipata a settembre l'apertura dell'ordine per la biancheria
- b) stanno per arrivare le scarpe, verrà indicato via e-mail il giorno di consegna, è possibile che ci sia un minimo costo aggiuntivo per spese d'ordine
- c) si conferma per settembre l'apertura ordine riso, probabilmente anche ordine pasta
2) Si stende una ipotesi di scadenziario ordini-consegne per i prodotti ormai ben definiti:
     riso: settembre-gennaio-maggio
     olio: settembre-dicembre-marzo-giugno
     parmigiano: dicembre-marzo-giugno
     conigli: ogni due mesi
     legumi: il referente farà sapere presto
     scarpe: probabilmente aprile
     patate elva: si sa dopo il raccolto
     il resto da stabilire, a parte ovviamente le consegne settimanali di prodotti freschi
3) I consulenti dello sportello energia di Pinerolo presentano una possibilità di acquisto collettivo di materiale isolante per sottotetto. Chi è interessato contatti loro o scriva al gas. Il 9/9 ci sarà una serata sull'argomento.
4) Viene dedicato parecchio tempo a cercare di chiarire se e come rivolgersi contemporaneamente a più produttori per uno stesso prodotto (ad esempio prodotti freschi).  Non è facile e non sempre abbiamo le idee chiare.
             buona estate, ci si vede a settembre   ciao emma

venerdì 9 luglio 2010

Firma l'appello contro la legge Balilla

Bella educazione! Si tagliano i fondi alla scuola e all'università e s'investe sulla formazione militare dei giovani.
Approfittando della manovra finanziaria, il governo ha deciso di stanziare ben 20 milioni di euro per organizzare corsi di formazione delle Forze Armate per i giovani. Il progetto era già contenuto in un disegno di legge in discussione al Senato ma con un emendamento alla finanziaria si fa prima.
L'idea del governo è semplice: invitiamo i giovani per tre settimane in caserma, gli facciamo indossare per la prima volta la divisa e gli spieghiamo quanto sia bello far parte delle Forze Armate e andare in missione in giro per il mondo. In questo modo riusciremo a selezionare nuovi volontari per l'arruolamento, ad "assicurare nuova linfa e continuità d'azione" alle associazioni combattentistiche e d'arma e, alla peggio, a promuovere un po' di sana cultura militare. Dio solo sa, coi tempi che corrono, quanto ne abbiamo bisogno!

Fai sentire la tua voce. Chiama i parlamentari eletti nel tuo collegio e digli di intervenire subito! Unisciti alla Tavola della pace. Diciamo no alla legge Balilla.
E se ci sono 20 milioni per la formazione dei giovani, pretendiamo che siano spesi per educare veramente alla cittadinanza e alla Costituzione ovvero alla pace e ai diritti umani, alla legalità e alla giustizia.
Perugia, 7 luglio 2010
Invia la tua adesione a: segreteria@perlapace.it - fax 075/5739337
Tavola della Pace
Via della Viola, 1
06122 Perugia
Tel. +39 075 5736890
Fax +39 075 5739337
tavola@perlapace.it
http://www.perlapace.it/

mercoledì 7 luglio 2010

L'alternativa a Marchionne di Guido Viale

Non c'è alternativa. Questa sentenza apodittica di Margaret Thatcher per la quale è stato creato anche un acronimo (Tina: there is no alternative) è la silloge del cosiddetto «pensiero unico» che nel corso dell'ultimo trentennio ha accompagnato le dottrine più o meno «scientifiche» da cui sono state orientate, o con cui sono state giustificate, le scelte di volta in volta dettate dai detentori del potere economico: prima liberismo (a parole, con grande dispendio di diagrammi e formule matematiche, ma senza mai rinunciare agli aiuti di stato e alle pratiche monopolistiche); poi dirigismo e capitalismo di stato (per salvare banche, assicurazione e giganti dell'industria dai piedi d'argilla dal precipizio della crisi); per passare ora a un vero e proprio saccheggio, usando come fossero bancomat salari, pensioni, servizi sociali e «beni comuni», per saldare i debiti degli Stati messi in crisi dalle banche appena salvate. Così la ricetta che non contempla alternative oggi è libertà dell'impresa; che va messa al di sopra di sicurezza, libertà e dignità, ovviamente dei lavoratori, inopportunamente tutelate dall'art. 41 della Costituzione italiana.

A enunciarlo in forma programmatica è stato Berlusconi, subito ripreso dal ministro Tremonti e, a seguire, dall'autorità sulla concorrenza, che non ha mai mosso dito contro un monopolio. A tradurre in pratica quella ricetta attraverso un aut aut senza condizioni, subito salutato dagli applausi degli imprenditori giovani e meno giovani di Santa Margherita Ligure, è stato l'amministratore delegato della Fiat, il Valletta redivivo del nuovo secolo. Eccola. Limitazione drastica (e anticostituzionale, ma per questi signori la Costituzione va azzerata; e in fretta!) del diritto di sciopero e di quello di ammalarsi.

Una organizzazione del lavoro che sostituisce l'esattezza cronometrica del computer alla scienza approssimativa dei cronometristi (quelli che un tempo alla Fiat si chiamavano i «vaselina», perché si nascondevano dietro le colonne per spiare gli operai e tagliargli subito i tempi se solo acceleravano un poco per ricavarsi una piccola pausa per respirare). Una turnazione che azzera la vita familiare, subito sottoscritta da quei sindacalisti e ministri che due anni fa erano scesi in piazza per «difendere la famiglia»: la loro, o le loro, ovviamente. È un ricatto; ma non c'è alternativa. Gli operai non lo possono rifiutare e non lo rifiuteranno, anche se la Fiom, giustamente, non lo sottoscrive. L'alternativa è il licenziamento dei cinquemila dell'Alfasud - il «piano B» di Marchionne - e di altri diecimila lavoratori dell'indotto, in un territorio in cui l'unica vera alternativa al lavoro che non c'è è l'affiliazione alla camorra.

Per anni, a ripeterci «non c'è alternativa» sono stati banchieri centrali, politici di destra e sinistra, sindacalisti paragovernativi, professori universitari e soprattutto bancarottieri. Adesso, forse per la prima volta, a confermarlo con un referendum, sono chiamati i lavoratori stessi che di questo sopruso sono le vittime designate. Ecco la democrazia del pensiero unico: votate pure, tanto non c'è niente da scegliere.

Effettivamente, al piano Marchionne non c'è alternativa. Nessuno ci ha pensato; neanche quando il piano non era ancora stato reso pubblico. Nessuno ha lavorato per prepararla, anche quando la crisi dell'auto l'aveva ormai resa impellente. Nessuno ha mai pensato che sarebbe stato necessario averne una, anche se era chiaro da anni che prima o poi - più prima che poi - la campana sarebbe suonata: non solo per Termini Imerese, ma anche per Pomigliano.

Ma a che cosa non c'è alternativa? Al «piano A» di Marchionne. Un piano a cui solo se si è in malafede o dementi si può dar credito. Prevede che nel giro di quattro anni Fiat e Chrysler producano - e vendano - sei milioni di auto all'anno: 2,2 Chrysler, 3,8 Fiat, Alfa e Lancia: un raddoppio della produzione. In Italia, 1,4 milioni: più del doppio di oggi. La metà da esportare in Europa: in un mercato che già prima della crisi aveva un eccesso di capacità del 30-35 per cento; che dopo la sbornia degli incentivi alla rottamazione, è già crollato del 15 per cento (ma quello della Fiat del 30); e che si avvia verso un periodo di lunga e intensa deflazione.

Quello che Marchionne esige dagli operai, con il loro consenso, lo vuole subito. Ma quello che promette, al governo, ai sindacati, all'«opinione pubblica» e al paese, è invece subordinato alla «ripresa» del mercato, cioè alla condizione che in Europa tornino a vendersi sedici milioni di auto all'anno. Come dire: «il piano A» non si farà mai.

Non è una novità. Negli ultimi dieci anni, per non risalire più indietro nel tempo, di piani industriali la Fiat ne ha già sfornati sette; ogni volta indicando il numero di modelli, di veicoli, l'entità degli investimenti e la riduzione di manodopera previsti. Tranne l'ultimo punto, che era la vera posta in palio, degli obiettivi indicati non ne ha realizzato, ma neanche perseguito, nemmeno uno. Ma è un andazzo generale: se i programmi di rilancio enunciati da tutte le case automobilistiche europee andassero in porto (non è solo la Fiat a voler crescere come un ranocchio per non scomparire) nel giro di un quinquennio si dovrebbero produrre e vendere in Europa 30 milioni di auto all'anno: il doppio delle vendite pre-crisi. Un'autentica follia.

Dunque il «piano A» non è un piano e non si farà. L'alternativa in realtà c'è, ed è il «piano B». Se a chiudere non sarà Pomigliano, perché Marchionne riuscirà a farsi finanziare da banche e governo (che agli «errori» delle banche può sempre porre rimedio: con il denaro dei contribuenti) i 700 milioni di investimenti ipotizzati e a far funzionare l'impianto - cosa tutt'altro che scontata - a cadere sarà qualche altro stabilimento italiano: Cassino o Mirafiori. O, più probabilmente, tutti e tre. La spiegazione è già pronta: il mercato europeo non «tirerà» come si era previsto

Hai voglia! Il mercato europeo dell'auto è in irreversibile contrazione; l'auto è un prodotto obsoleto che nei paesi ad alta intensità automobilistica non può che perdere colpi: «tirano», per ora, solo i paesi emergenti - fino a che il disastro ambientale, peraltro imminente, non li farà recedere anch'essi - ma le vetture che si vendono là non sono certo quelle che si producono qui: né in Italia né in Polonia.

Anche se la cosa non inciderà sulle scelte dei prossimi mesi, è ora di dimostrare che non è vero che non c'è alternativa. L'alternativa è la conversione ambientale del sistema produttivo - e dei nostri consumi - a partire dagli stabilimenti in crisi e dalle fabbriche di prodotti obsoleti o nocivi, tra i quali l'automobile occupa il secondo posto, dopo gli armamenti. I settori in cui progettare, creare opportunità e investire non mancano: dalle fonti di energia rinnovabili all'efficienza energetica, dalla mobilità sostenibile all'agricoltura a chimica e chilometri zero, dal riassetto del territorio all'edilizia ecologica. Tutti settori che hanno un futuro certo, perché il petrolio costerà sempre più caro - e persino le emissioni a un certo punto verranno tassate - mentre le fonti rinnovabili costeranno sempre meno e l'inevitabile perdita di potenza di questa transizione dovrà essere compensata dall'efficienza nell'uso dell'energia. L'industria meccanica - come quella degli armamenti - può essere facilmente convertita alla produzione di pale e turbine eoliche e marine, di pannelli solari, di impianti di cogenerazione. Poi ci sono autobus, treni, tram e veicoli condivisi con cui sostituire le troppe auto, assetti idrogeologici da salvare invece di costruire nuove strade, case e città da riedificare - densificando l'abitato - dalle fondamenta.

Ma chi finanzierà tutto ciò? Se solo alle fonti rinnovabili fosse stato destinato il miliardo di euro che il governo italiano (peraltro uno dei più parsimoniosi in proposito) ha gettato nel pozzo senza fondo delle rottamazioni, ci saremmo probabilmente risparmiati i due o tre miliardi di penali che l'Italia dovrà pagare per aver mancato gli obiettivi di Kyoto. Ma anche senza incentivi, le fonti rinnovabili si sosterranno presto da sole e i flussi finanziari oggi instradati a cementare il suolo, a rendere irrespirabile l'aria delle città, impraticabili le strade e le piazze, a riempirci di veleni per rendere sempre più sterili i suoli agricoli, a sostenere un'industria delle costruzioni che vive di olimpiadi, expo, G8, ponti fasulli e montagne sventrate potranno utilmente essere indirizzati in altre direzioni. È ora di metterci tutti a fare i conti!

Ma chi potrà fare tutte queste cose? Non certo il governo. Né questo né - eventualmente - uno di quelli che abbiamo conosciuto in passato; e meno che mai la casta politica di qualsiasi parte. Continuano a riempirsi la bocca con la parola crescita e stanno riportandoci all'età della pietra. La conversione ecologica si costruisce dal basso «sul territorio»: fabbrica per fabbrica, campo per campo, quartiere per quartiere, città per città. Chi ha detto che la programmazione debba essere appannaggio di un organismo statuale centralizzato e non il prodotto di mille iniziative dal basso? Chiamando per cominciare a confrontarsi in un rinnovato «spazio pubblico», senza settarismi e preclusioni, tutti coloro che nell'attuale situazione non hanno avvenire: gli operai delle fabbriche in crisi, i giovani senza lavoro, i comitati di cittadini in lotta contro gli scempi ambientali, le organizzazioni di chi sta già provando a imboccare strade alternative: dai gruppi di acquisto ai distretti di economia solidali. E poi brandelli di amministrazioni locali, di organizzazioni sindacali, di associazioni professionali e culturali, di imprenditoria ormai ridotta alla canna del gas (non ci sono solo i «giovani imprenditori» di Santa Margherita); e nuove leve disposte a intraprendere, e a confrontarsi con il mercato, in una prospettiva sociale e non solo di rapina.

Il tessuto sociale di oggi non è fatto di plebi ignoranti, ma è saturo di intelligenza, di competenze, di interessi, di saperi formali e informali, di inventiva che l'attuale sistema economico non sa e non vuole mettere a frutto.

Certo, all'inizio si può solo discutere e cominciare a progettare. Gli strumenti operativi, i capitali, l'organizzazione sono in mano di altri. Ma se non si comincia a dire, e a saper dire, che cosa si vuole, e in che modo e con chi si intende procedere, chi promuoverà mai le riconversioni produttive?
Guido Viale
tratto da Il manifesto 16-06-2010

venerdì 2 luglio 2010

Vittoria dei cittadini contro i potentati economici!

Approvata anche in Provincia a Torino la delibera d’iniziativa popolare per l’Acqua Pubblica

Questa notizia, seppur "locale" assume una rilevanza nazionale in quanto rappresenta un "pericoloso" (per i potentati economici) precedente. Una vittoria dei cittadini e dei loro interessi...
Condividiamo l'entusiasmo del Forum e diffondiamo integralmente il loro cominicato (censurato da tutti i media anche locali)

L'8 febbraio, subito dopo il voto favorevole del Consiglio comunale di Torino sulla delibera di iniziativa popolare che modificava lo Statuto della Città, abbiamo espresso e motivato la nostra "moderata soddisfazione" per quel risultato.1

Oggi, dopo l'approvazione il 1 giugno anche da parte del Consiglio provinciale della modifica dello Statuto, possiamo senza tema affermare che questo secondo risultato, e ancor più il quadro complessivo che si viene a creare, costituiscono atti di grande importanza nel percorso di riappropriazione sul senso e sulle scelte da compiere in merito all'acqua e a tutti i beni comuni.
Anche la delibera di iniziativa popolare per la Provincia è stata approvata dal Consiglio con alcuni emendamenti. Prima di entrare nel merito occorre, però, dare una valutazione generale sull'intera vicenda e sul suo esito.

Per la prima volta in Italia una grande Provincia afferma, nel proprio Statuto, che l'acqua è un bene comune, che il servizio idrico è privo di rilevanza economica e deve essere gestito esclusivamente da enti o aziende interamente pubblici, senza alcun fine di lucro ma col vincolo di reinvestire gli attivi della gestione nel servizio stesso.
Si afferma, in sostanza, che l'acqua NON è una merce e si declina questo concetto con affermazioni chiare e vincolanti.
Questi principi sono stati affermati grazie all'iniziativa dei cittadini, senza nessun appoggio dipotentati politici, economici o mediatici.
La volontà di trasformare l'acqua in un lucroso business rimane ampia e forte nel mondo economico, politico e, di conseguenza, in quello mediatico.
Non è sicuramente un caso che anche stavolta "La Stampa", "La Repubblica" (nelle loro pagine locali) e il TG3 regionale abbiano osservato, con granitica unanimità, un assordante silenzio.
Evidentemente pesano di più gli interessi di qualche azionista dei grandi giornali rispetto al diritto dei cittadini a essere informati e al dovere di cronaca, valori che in questi giorni sono - giustamente- così rivendicati dai giornalisti stessi, di fronte alla legge "bavaglio" in discussione in Parlamento...
Eppure oggi, con le modifiche dei due Statuti dei principali Enti locali del territorio torinese, il progetto di privatizzazione dell'acqua dei torinesi, che aveva come principale sponsor il sindaco di Torino Chiamparino, appare cosa vecchia e ci auguriamo che, come vuole il rispetto delle regole democratiche, esso venga definitivamente accantonato.

Questa volta cittadini organizzati, il cui numero aumenta ogni giorno mentre firmano il referendum per l'Acqua Pubblica, vicino ormai a un milione di sottoscrizioni, hanno avuto più peso dei potentati economici!

Come valutazione politica, va osservato che la Maggioranza del Consiglio Provinciale che sostiene il Presidente Saitta (cui si è unito un Consigliere di opposizione) ha non solo confermato, ma rafforzato, quanto già fatto dalla Maggioranza del Consiglio Comunale; ciò è avvenuto superando anche, con coraggio e coerenza, un parere negativo di uffici "tecnici" che non si erano fatti molti scrupoli a stravolgere la realtà del quadro normativo comunitario e nazionale, pur di ammantare i proclami ideologici neoliberisti di presunta oggettività giuridica.
Ci rammarichiamo che il voto finale non sia stato unanime in quanto su un punto essenziale, quello della gestione pubblica dell'acqua, l'UdC si è dichiarata contraria con un distinguo da noi già definito incomprensibile.
I gruppi di centrodestra che hanno dato una valutazione negativa della nostra proposta, prendendo anche a pretesto il citato parere degli uffici, si sono o assentati o non hanno partecipato al voto; se va riconosciuto il fatto di non aver voluto votar contro l'iniziativa popolare, forse un po' di riflessione in più avrebbe fatto loro capire che avevano un'occasione unica per lanciare un segnale politico proveniente dai territori alle loro segreterie, così lontane dalla realtà quotidiana.

Il perché della soddisfazione, ma con alcune precisazioni

Pensiamo quindi di poter salutare come importantissima questa scelta politica, che ci auguriamo altre Province, a partire da quelle piemontesi, vogliano presto fare propria. Oggi che all'incertezza del quadro normativo si è aggiunta l'abolizione delle Autorità d'Ambito, le Province sono le più probabili candidate ad assumere il ruolo dell'Ente affidatario. Giusto o meno che sia un esito di questo genere, siamo lieti di aver operato, con lungimiranza, anche su questo fronte e continuiamo a esortare il movimento per l'acqua a seguirci con più decisione su questa strada.
Inoltre, la conseguenza di aver dichiarato la non rilevanza economica del Servizio, consente di affermare che secondo la Provincia di Torino, che ha applicato i poteri concessi dalla Costituzione e dal diritto europeo, il decreto "Ronchi", sebbene ancora in vigore, non si applica al servizio idrico nell'ATO3 Torinese, che non soggiace quindi alle scadenze temporali previste dal decreto.

Rimangono alcuni dispiaceri che è necessario evidenziare.

Non si è esplicitato il principio della inseparabilità tra rete e servizio.

Questa separazione, del tutto irrazionale e anti-industriale, nei servizi a rete, serve spesso come "cavallo di Troia" per privatizzare (previo "spezzatino") i monopoli naturali.
Va però precisato che a differenza del Comune, la delibera provinciale contiene comunque il principio della gestione anche della rete mediante soggetti pubblici.

Non è stato deciso di garantire il quantitativo minimo vitale gratuito come diritto inalienabile della persona.

Non solo si è persa l'opportunità di gettare un ponte ideale, per unire la provincia di Torino a quelle realtà per cui l'assenza del quantitativo minimo è la lesione costante di un fondamentale diritto umano. Ma non si è voluto riconoscere che anche da noi in Italia, oggi, le società per azioni che gestiscono l'acqua non esitano a lasciare a secco interi condomini - magari sulla base di bollette "pazze"- e di fronte a questo i cittadini mancano degli strumenti legali per opporsi. Questo è solo un esempio, forse il più terribile, della progressiva sostituzione dei diritti con i "corrispettivi", trend che si poteva cominciare a invertire.

Nello stesso periodo il Consiglio Provinciale ha proceduto a ratificare la fusione Iride-Enia, decisa da Consigli di Amministrazione lontani dai cittadini.
Una fusione che avalla la nascita di un colosso economico-finanziario dominato dalle logiche del profitto e della speculazione e che mira a gestire l'acqua come una merce a Genova e nei comuni emiliani, dove dispone dell'affidamento del Servizio. Ad essa il Comitato Acqua Pubblica Torino continuerà a opporsi con ogni mezzo insieme ai Comitati degli altri territori interessati.

Al riguardo vale comunque la pena fare un'osservazione.
La modifica dello Statuto Provinciale, dopo quella approvata dal Comune di Torino, crea un ulteriore impedimento giuridico e politico al progetto, voluto dai poteri forti di questa Città e ripetutamente preannunciato attraverso i media, di portare in dote a Iride-Enia l'acqua di Torino, gestita dalla SMAT.
Questa ricca dote si sarebbe rivelata molto appetitosa in occasione del nuovo annunciato "matrimonio", da celebrarsi sull'altare del mercato finanziario, con un importante fondo d'investimento; invece il gioiello di famiglia rimane a Torino e l'interessato "promesso sposo" rimarrà a bocca... asciutta!

Come in Comune, i contatti tra il Comitato e i Consiglieri che si sono incaricati della mediazione hanno permesso che gli emendamenti, inizialmente stravolgenti la proposta popolare, siano diventati compatibili con lo spirito e lo scopo di essa.

Un esempio di democrazia vivente

Nella nostra Città e nella nostra Provincia abbiamo superato due ostacoli formidabili, ma la strada è ancora lunga: per difendere quanto raggiunto, per migliorare e condividere attività e speranze con quanti nel resto d'Italia, in Europa e nel Mondo vogliono affermare un diritto per gli esseri umani di oggi e per quelli di domani.
Due anni fa un'analoga iniziativa popolare scongiurò la parziale privatizzazione dei servizi pubblici a Lipsia. Ci piace continuare a ricordare come la pacata e autorevole "Sueddeutsche Zeitung" definì tale impresa con parole che crediamo di aver applicato anche a Torino: "Un esempio di democrazia vivente".

Il referendum sull'Acqua Pubblica non fa che continuare il percorso su questo tracciato, che ci unisce, non solo idealmente, con l'assemblea dei movimenti di Cochabamba, sede dieci anni fa della prima e più nota "guerra dell'acqua". Speriamo che anche queste, come le altre guerre, diventino presto un ricordo del passato, come accadrà quando finalmente l'acqua tornerà ad essere diritto umano universale e bene comune inalienabile dei popoli.